In Italia aumentano le fragilità, lo dicono i numeri. In primis, l’invecchiamento della popolazione: secondo gli ultimi dati diffusi dall’Istat, l’età media in Italia è passata da 42,5 anni nel 2005 a 46,8 anni nel 2025. Pensiamo alle implicazioni di cronicità e solitudine che comporta la vecchiaia e dunque una maggiore necessità di assistenza. Ma anche nelle fasce più giovani, le fragilità si ampliano rispetto al passato. Pensiamo ai Neet, quella quota di popolazione che non è né occupata né inserita in un percorso di istruzione o di formazione. Sempre l’Istat attesta che il 16,1% dei giovani tra i 15 e i 29 anni, è Neet. In questo quadro l’Italia si conferma uno dei paesi europei con la quota più alta di giovani inattivi, ben al di sopra della media UE, che si attesta all’11,2%. Questi sono solo due esempi che comportano un confronto costante con la capacità di “cura” del nostro sistema di welfare. Il modello sanitario resta l’approccio prevalente alle fragilità ma, tuttavia, rimane parziale nel rispondere a bisogni che non sono solo del paziente, ma soprattutto della persona. Il modello sociale di risposta alle fragilità oggi ha sviluppato un’attenzione particolare ai contesti di vita, alla cura delle reti informali e alla domiciliarità. Possiamo in questi termini parlare di welfare di comunità, che si radica nei tessuti sociali e comunitari tanto da trasformarsi nella “comunità che si fa welfare”, cioè assume su di sé la cura delle fragilità che la attraversano.

Di tutto questo abbiamo parlato nel corso del quarto appuntamento di “Comunità in pratica”, una delle azioni che Acri ha avviato in vista del XXVI Congresso nazionale, che si terrà a Gorizia il 12 e il 13 giugno 2025. L’iniziativa, che mira a raccogliere alcune esperienze in diversi settori, attraverso tavoli tematici nel corso dei quali viene approfondito il senso del termine “comunità”, ha visto lo svolgersi di quattro incontri a porte chiuse, su alcune declinazioni della comunità: Educare, Cultura, Abitare e appunto Cura. Il prossimo conclusivo sarà sull’Innovazione.

Al tavolo dedicato alla Cura, ha partecipato Elena Bertolini, consigliera della Fondazione Reggio Children, un centro internazionale per la difesa e la promozione dei diritti e delle potenzialità dei bambini e delle bambine. “La Fondazione è nata dopo la seconda guerra mondiale per volontà di un gruppo di donne che, rimaste sole durante e dopo il conflitto a prendersi cura dei bambini, volevano un supporto e, soprattutto, un’educazione di qualità per i figli”. La Fondazione ha sempre portato avanti il concetto di una scuola “diversa” che metta al centro il bambino in quanto portatore di diritti e di potenzialità. “Per noi i bambini sono cittadini anche prima di avere lo status di cittadini. Riconoscere nel bambino l’elemento più fragile, ma anche il più rappresentativo della comunità è la struttura di tutto il nostro sistema”. Uno degli elementi che sono stati fondamentali nella costruzione dell’esperienza di Reggio Children – e che tuttora ne rappresenta un’asse portante – è il diritto alla bellezza, che si collega strettamente al concetto di cura. “Ogni luogo educativo deve essere bello. La bellezza permette di avere una considerazione della propria persona diversa, più forte, più possente. Combattere il degrado significa anche combattere la povertà educativa, condividere uno spazio fruibile e bello è importante per tutta la comunità”.

A condividere la dicotomia “bellezza-cura” e lo stretto legame tra questi due aspetti è anche Jacopo Dalai, presidente della Cooperativa sociale Nivalis che si rivolge ad adolescenti e famiglie attraverso servizi clinici e psicopedagogici nella città di Milano. “Bellezza e cura sono in connessione, pensare e ripensare ai luoghi di cura come luoghi belli dove si respira bellezza aiuta la comunità a ritrovare equilibrio. La nostra cooperativa si inserisce in una villa quattrocentesca e, notiamo continuamente, quanto i pazienti e le famiglie siano sopresi che un luogo ‘terapeutico’ sia così bello. Questo perché siamo abituati ad associare la cura a luoghi sterili, monocromatici, scuri, tristi. Ebbene questo deve cambiare. Offrire la bellezza ai bambini e ai ragazzi rigenerando i luoghi ha un valore ineguagliabile per loro e non solo, anche per chi ci lavora”.

A darci il suo punto di vista anche Monica Villa, direttrice area servizi alla persona di Fondazione Cariplo. “La Fondazione sperimenta e sostiene i territori per innovare le risposte di welfare partendo dal coinvolgimento della comunità. Proprio partendo dalle persone è possibile arrivare ai loro bisogni. E per farlo nel migliore dei modi è necessario attivare delle reti sui territori che siano in grado di elaborare un sistema di risposta. Altro ingrediente fondamentale p4er migliorare e strutturare in maniera più efficace il sistema di cura è la fiducia. Occorre ci sia un forte livello di fiducia tra organizzazioni, tra le persone, tra il Terzo settore e le istituzioni. Con un buon dialogo tra gli attori del territorio è possibile innescare un processo trasformativo del welfare”.

Dell’importanza del “fare rete” parla anche Chiara Agostini, ricercatrice di Percorsi di secondo Welfare specializzata in giovani, inclusione, scuola e povertà. “Nel concetto di cura penso che sia centrale valorizzare quelle reti di welfare che nascono con l’obiettivo di produrre benessere sui territori e, contemporaneamente, incentivate anche quelle reti sociali o di prossimità che sono quelle che viviamo quotidianamente e che, se potenziate, possono diventare un attore chiave del welfare”.

“La cura non è una questione privata ma è collettiva. La cura è la risposta a cambiamenti politici e culturali che, se non vengono innescati, modificati, trasformati, non portano a miglioramenti”. Lo dice Marina Galati, direttrice di Comunità Progetto Sud, una realtà che da 50 anni individua risposte concrete di inclusione sociale per tutti coloro che si trovano in stato di emarginazione. “Siamo nati in Calabria, un territorio dove i servizi dedicati alla cura della persona sono sempre stati carenti. Come comunità abbiamo l’obiettivo di accogliere persone fragili e promuovere servizi costruiti sull’elemento partecipativo di ogni individuo portatore del problema. La partecipazione così incentivata ha generato negli anni la definizione di una rete regionale, nazionale e poi internazionale utile a far evolvere le politiche culturali nella nostra regione”.

Partecipa al tavolo anche Serena Porcari, amministratore delegato di Dynamo Camp, un luogo di vacanza e relazione destinato a bambini e ragazzi con malattie gravi e croniche. L’associazione è stata fondata nel 2007 da Fondazione Dynamo, ed è il primo Camp di terapia ricreativa in Italia, situato nell’oasi naturalistica affiliata WWF, tra le montagne dell’Appenino Pistoiese. “Noi siamo la realizzazione di un sogno. Ogni attività a Dynamo Camp è un sogno, come riuscire a fare un’arrampicata di 8 metri in sedia a rotelle. Questo lo si fa sfidando i propri limiti ma insieme agli altri perché il Camp è luogo di divertimento e soprattutto di relazione con gli altri”. Il campo è aperto tutto l’anno e offre vacanze gratuite a bambini dai 6 ai 17 anni nel periodo di post ospedalizzazione o in fase di remissione dalla cura, a bimbi disabili (con patologie neurologiche, neuromotorie e sindromi rare) e ai genitori o ai fratelli e sorelle dei bambini malati. “Noi non facciamo terapia, ma siamo attivatori di fiducia in sé stessi. La fiducia e il sogno è che questi ragazzi crescano, diventino adulti, gestiscano le loro patologie e diventino prima di tutto cittadini oltre che ballerini, avvocati, operatori della cura oppure parte dello staff di Dynamo Camp”.